I romani e lo sport - V parte

Le discipline atletiche

Nella prima metà del mese di Agosto si celebravano a Napoli dal 2 d.C. e, in seguito, ogni quattro anni i Sebastà, le più famose gare atletiche istituite in onore di Augusto, degne di competere con le ben note manifestazioni agonistiche che si celebravano nel mondo antico, Sebastà isolimpici era la denominazione ufficiale di queste gare, quasi ad indicare lo stretto legame ideale che le legava a quelle più antiche disputate ad Olimpia, di cui ricalcava il modello.
Atleti, oramai da considerare dei veri professionisti, provenienti da tutto l'Impero, come dimostrato dagli elenchi dei vincitori giunti fino a noi, arrivavano a Napoli trenta giorni prima delle gare per dare l'adesione all'agonoteca o direttore dei giochi, ogni concorrente aveva diritto ad una diaria di una dracma al giorno aumentata, nei giorni precedenti la gara, a due dracme e mezzo se l'atleta faceva parte della categoria dei fanciulli (dai 12 ai 16 anni) e a tre dracme se a quella degli adulti.
Queste notizie provengono da un testo di una iscrizione marmorea, ritrovata ad Olimpia e qui probabilmente esposta durante i giochi, per dare l'opportunità agli atleti presenti alle Olimpiadi di venire a conoscenza anche delle norme che regolavano la partecipazione alle gare di Napoli.
Pur essendo il testo dell'iscrizione lacunoso per la parte relativa ai programmi e modalità delle gare atletiche, si può supporre che la sequenza dello svolgimento fosse la stessa adottata a Olimpia, anche se purtroppo, non abbiamo nemmeno di questa indicazioni certe dalle fonti antiche.
Il giorno dell'inaugurazione dei giochi era probabilmente riservato, come per i giochi olimpici, al corteo degli atleti concorrenti e al giuramento al grande Zeus, gli atleti giuravano solennemente di essersi allenati coscienziosamente e che non avrebbero fatto uso di mezzi illeciti per vincere, anche i giudici giuravano di essere corretti ed imparziali.
Il secondo giorno era probabilmente dedicato alle gare dei fanciulli: corsa, lotta e pugilato; nel terzo gli adulti concorrevano nei vari tipi di corsa, nella lotta, nel pugilato e nel pancrazio; il quarto giorno era dedicato alle gare di pentatlon, alla corsa con armatura e agli agoni ippici mentre il quinto era dedicato al trionfo dei vincitori, i quali, incoronati di spighe rendevano omaggio insieme all'intera cittadinanza di Napoli, a Zeus e al divo Augusto, cui il sacro agone era dedicato.
Gli atleti prendevano parte a questa manifestazione agonistica, come alle altre celebrate nella varie città dell'Impero, dopo aver praticato un intenso allenamento nelle scuole atletiche, sotto la guida di maestri, i “paidotribi”, specializzandosi nelle varie discipline; da quanto tramandatoci dalle fonti letterarie, dalle iscrizioni e dalle opere figurative, possiamo stabilire che, con l'istituzione delle manifestazioni agonistiche, vennero introdotte nel mondo romano le stesse discipline atletiche proprie dei giochi ellenici: stesse specialità quindi e perfino stessi atleti che effettuavano un vero tour toccando le altre sedi di gare.
Differenze trascurabili furono introdotte nel tempo, ad esempio sulle modalità del pugilato e della corsa a staffette, ma per il resto esisteva una grande uniformità di regole e comportamenti da Roma a Napoli e a Nicopoli per parlare delle gare del cosiddetto ciclo nuovo, fino ad Olimpia, a Delfi, a Corinto o nei pressi di Argo per il ciclo antico.
Il programma delle gare, eseguite nello stadio (da " stadion ", unità di misura uguale a 600 piedi che era la distanza della corsa; tale termine indicò poi anche il luogo destinato alle gare di atletica leggera e pesante) prevedeva la corsa, la lotta, il pugilato, il pancrazio e il pentatlon o “quinquertium”che comprendeva la corsa dello stadio, il salto in lungo, il lancio del disco, del giavellotto e la lotta; la gara podistica per eccellenza era la corsa dello stadio, corsa veloce sulla distanza di circa 180 metri, da questa poi derivarono poi il “diaulo”, corsa su una distanza doppia e il dolio che potrebbe paragonarsi all'attuale mezzofondo o fondo, poiché la distanza da percorrere andava dai 7 ai 24 stadi, cioè tra i 1300 e i 4500 metri.
I concorrenti, nudi e scalzi, di solito coi capelli annodati sulla sommità del capo detto “cirrus”, attendevano il via in posizione eretta con il dorso leggermente curvo in avanti, la linea di partenza doveva essere simile a quella ritrovata in vari stadi greci e i basamenti in pietra, posti ad intervalli regolari su cui erano infissi pali verticali, delimitavano il posto assegnato a ciascun atleta.
Lo scavo dello stadio dell'istmo di Corinto ha portato alla luce un ingegnoso dispositivo che consentiva la partenza simultanea di tutti i concorrenti, una serie di lastre è disposta sul terreno in modo da formare un triangolo isoscele, la cui base è costituita dalla linea di partenza, individuata dai fori che contenevano i pali verticali delimitanti i posti degli atleti; sul vertice del triangolo una grossa buca doveva accogliere lo starter e da questa sino ai pali verticali correvano strette scanalature alloggianti in origine delle corde, tenute sul posto da ganci di bronzo tutt'oggi conservati.
Queste corde comandavano le traverse di legno incernierate ai pali verticali e poste di fronte ad ogni corridore, al segnale di partenza lo starter allentava le corde di modo che le traverse cadevano dando via libera all'atleta.
Un'interessante raffigurazione di partenza di corridori, allineati davanti ad una traversa, è conservata in un frammento ai Musei Vaticani e in disegno del codice Vaticano Latino.
Quando i corridori erano troppo numerosi si usavano, come oggi, le batterie eliminatorie a dimostrazione che l'atletica, almeno al tempo di Pausania dal quale riceviamo la notizia, fosse già ad un livello tecnico organizzativo molto avanzato.
Il programma dei giochi greci comprendeva anche la corsa con le armi, durante la quale i concorrenti con elmo e scudo percorrevano distanze variabili a seconda delle città in cui si disputavano le gare.
Anche la “lampadedromia”, corsa a staffette tra squadre diverse, pur non facendo parte del programma olimpico, godè di grande popolarità sia in Grecia che a Roma: gli atleti percorrevano ognuno una frazione della distanza complessiva, portando nella mano al posto dell'attuale “testimone” una fiaccola accesa che veniva consegnata alla fine di ogni frazione al compagno di squadra.
Il modo di correre la “lampadedromia” , ben documentato su vasi attici della seconda metà del V prima metà del IV secolo a.C. venne modificato col tempo dai romani, nel mosaico di Albani di media età imperiale sono raffigurati due atleti che corrono imbracciando con la sinistra uno scudo rotondo mentre con il braccio destro, proteso in avanti, tengono in mano la fiaccola accesa.
Nel mosaico di Piazza Armerina, tra l'altro molto frammentario, datato al IV sec. d.C. si possono osservare due atleti nel pieno della corsa, i quali come al solito con la sinistra tengono il grande scudo, mentre con la destra impugnano la fiaccola appoggiata alla spalla, coperta assieme al braccio da una sorta di protezione infilata come una guaina, tenuta stretta da lacci e da un balteo che passava obliquo sul petto e girava sull'omero dell'altro braccio; da notare i due diversi colori delle protezioni degli atleti, una rossa e l'altra bianca a dimostrazione dell'esistenza di più squadre, come gli aurighi circensi, i quali indossavano tuniche colorate a seconda delle fazioni di appartenenza.
I due mosaici, pur nella scarsezza dei particolari, documentano come nel tempo sia cambiato il modo di tenere la fiaccola, mentre purtroppo poco o nulla si sa sul resto della gara, soprattutto sul momento più importante, quello cioè del passaggio della fiaccola da un atleta all'altro.
Nelle tre discipline che componevano l'atletica pesante, vale a dire il pugilato, la lotta ed il pancrazio non esistevano (come oggi) categorie di peso, gli abbinamenti degli atleti venivano sorteggiati alla presenza degli “agoneteti”attraverso il seguente sistema: le lettere dell'alfabeto venivano duplicate e gli atleti che estraevano la stessa lettera si sarebbero affrontati, se gli atleti erano dispari colui al quale toccava la lettera singola sosteneva il ruolo di “ephedros”, cioè passava al turno successivo, con il notevole vantaggio di combattere nel pieno delle forze con il vincitore già provato dal primo combattimento.
Nel pugilato gli atleti combattevano con guantoni, stretti da lacci di cuoio, dotato di rinforzi metallici, che partivano dall'avambraccio arrivando sino alle mani lasciando libere le estremità delle dita.
Gli imantes greci, costituiti da fasce di cuoio avvolte all'avambraccio e alle mani, erano stati modificati già nel IV sec. a.C. nei cosiddetti “imantes oxeis”, guantoni di cuoio che proteggevano mani ed avambracci, forniti di
un anello di cuoio che inglobava insieme quattro dita lasciando libero il pollice; gli " imantes oxeis " sono ben rappresentati nella famosa statua del pugilatore a riposo conservata a Roma e nella statua marmorea di pugile trovata a Sorrento e conservata a Napoli.
In età romana questo tipo di guantone venne ulteriormente modificato nel “caestus” dotato, come già detto, di rinforzi metallici, così costituito il nuovo guantone favoriva la spettacolarità degli incontri i cui epiloghi, violenti e rapidi, erano graditi agli spettatori romani, abituati ai combattimenti cruenti dei gladiatori, devastanti comunque le ferite e le deformazioni riportate dagli atleti durante i combattimenti, soprattutto alla faccia; l'incontro di pugilato non prevedeva nessun intervallo, si andava avanti sino a che uno dei due atleti veniva messo fuori combattimento o alzava il braccio in segno di resa.
Gli atleti si sottoponevano ad un duro allenamento basato su esercizi molto simili a quelli dei pugili attuali, per esempio per allenarsi a colpire usavano il “korikos”, una sorta di punching - ball, costituito da un sacco di cuoio pieno di sabbia e appeso in modo tale da arrivare all'altezza della testa; era utilizzato anche dei pancraziasti, ma di maggiori dimensioni, per esercitarsi a colpirlo e ricevendolo di rimbalzo sulla testa e sul corpo, per migliorare così stabilità ed equilibrio.
I pugili per proteggere le parti più colpite, testa ed orecchie, utilizzavano durante gli allenamenti dei paraorecchi di lana, coperti di cuoio che venivano allacciati sotto il mento.
Prima di iniziare un combattimento di lotta o di pancrazio, l'atleta dopo essersi frizionato i muscoli con olio puro, li ricopriva di un sottile strato di polvere che lasciava cadere sulla pelle con le dita della mano, questo non soltanto per rendere il corpo meno scivoloso ma soprattutto per motivi igienici, perché era convinzione che l'uso della polvere regolasse l'emissione del sudore e proteggesse contro le intemperie.
Al termine dell'allenamento o dell'incontro, l'atleta asportava lo strato di olio e polvere con dei raschiatoi di bronzo chiamati strigili, che insieme alle piccole ampolle contenenti olio puro, facevano parte del corredo di ogni atleta, eseguendo poi una nuova frizione di olio “apoterapeutica”l'atleta faceva rilassare i muscoli.
Durante l'incontro di lotta erano ammesse tutte le prese sulla parte superiore del corpo, mentre non erano ammesse quelle alle gambe dell'avversario, al quale però si poteva fare lo sgambetto, la vittoria veniva assegnata a chi riusciva a gettare l'avversario a terra facendogli toccare per tre volte qualsiasi parte del corpo con il terreno, l'incontro poteva comunque anche concludersi con un pari.
I lottatori iniziavano la loro preparazione sotto la guida di maestri specializzati, i “paidotribi”, che insegnavano soprattutto i metodi di caduta e quelli di loro che lottavano con il baricentro del corpo basso imparavano a cadere con sicurezza, ad alzarsi agevolmente, apprendevano i contrasti, le prese, le torsioni, a conoscere il metodo di soffocamento e a sollevare sulle spalle verso il cielo l'avversario, come avviene ancora oggi nell'insegnamento della lotta o di discipline di lotta orientali.
I lottatori, i pancrazi asti ed i pugili cercavano di migliorare continuamente le loro prestazioni anche con diete appropriate che prevedevano un'alimentazione a base di carne; la dieta carnea, in luogo di quella a base di formaggi e fichi secchi, sembra sia stata sperimentata per la prima volta da Pitagora intorno al VI sec. a.C. sull'atleta di Samo Eurymes, lo stesso Milone di Crotone, membro della setta di Pitagora, un famoso lottatore che si vantava di non essere mai stato messo in ginocchio da nessuno, era un grande mangiatore di carne, un lottatore imbattibile ma capace di morire scioccamente sbranato vivo da un branco di lupi, per non essere riuscito a liberarsi le mani rimaste incastrate nelle fessure di un tronco d'albero.
Nel pancrazio, nato dalla fusione di tecniche del pugilato con la lotta tutto era permesso: dai calci ai pugni, alle leve, alle articolazioni ed ai strangolamenti, tutto lecito tranne mordere e graffiare, il pancraziaste non usava però i terribili guantoni del pugile e probabilmente per questo veniva considerata come disciplina meno pericolosa del pugilato.
A differenza della lotta, i cui protagonisti dovevano sbilanciare l'avversario fino a farlo cadere a terra, nel pancrazio lo scopo finale era unicamente la resa di uno dei due atleti, quindi l'incontro prevedeva il proseguimento a terra del combattimento sino alla completa immobilizzazione dell'avversario; la spettacolarità e la varietà delle tecniche del pancrazio ci fanno comprendere il motivo della grande popolarità che questa disciplina ebbe tra i romani.
Per quanto riguarda le cinque gare del pentathlon e cioè la corsa dello stadio, il salto in lungo, il lancio dl disco, del giavellotto e la lotta, l'unica certezza è che la lotta rappresentava, almeno nelle competizioni greche, l'ultima gara.
Nella prova del salto in lungo, unica forma di salto degli antichi, l'atleta, dopo una breve rincorsa su una pista di terra compatta, saltava da una linea detta “batér”, tenendo in mano gli “halteres”, una sorta di manubri di piombo o di pietra che dovevano servire ad avere una traiettoria più lunga ed un atterraggio più sicuro, e che in epoca romana hanno una forma cilindrica, come si può vedere in uno dei mosaici di Piazza Armerina.
Gli “halteres” erano anche utilizzati per irrobustire i muscoli delle braccia e delle spalle e in epoca imperiale questo tipo di allenamento, chiamato “halterobolia”, era consigliato anche da un punto di vista medico.
La misurazione del salto veniva effettuato con il “kanon”, un'asta di legno, dai paidotribi, i quali osservavano con attenzione che le impronte dei piedi dell'atleta fossero ben impresse sul terreno in quella parte dello stadio chiamata “skamma” (dal verbo “skapto”che significa scavare), questo perché il terreno veniva scavato e reso soffice in modo tale che l'atleta al termine del salto non riportasse ferite.
Nel lancio del disco, l'atleta dopo aver cosparso di sabbia il disco per aumentarne la presa, eseguiva il lancio da una pedana detta “balbis”, limitata frontalmente e lateralmente, con un movimento di semirotazione rappresentato in maniera eccellente dalla famosa statua del discobolo di Mirone, e descritta molto bene da Filostrato: “il lanciatore deve piegare la testa a destra e chinarsi in modo da poter vedere il proprio fianco”, l'ultima fase era costituita dall'estensione del corpo in avanti e quindi del lancio dell'attrezzo.
Nel lancio del giavellotto, costituito da un'asta di legno dotata di una punta metallica, l'atleta utilizzava un laccio di cuoio, “aumentum”, lungo dai 30 ai 45 cm. e annodato al centro dell'asta, tale laccio imprimeva all'asta un movimento rotatorio intorno al proprio asse che ne garantiva la stabilità durante il lancio e aumentava la spinta data dal braccio dell'atleta.

La premiazione

Chiamati a voce alta dagli araldi e completamente nudi, i vincitori si presentavano davanti agli “agoneteti”nell'ultimo giorno dei giochi per ricevere i premi, mentre nello stadio echeggiavano le grida di incitamento degli spettatori.
La ricompensa per gli atleti vincitori nei giochi sacri, sia dell'antico ciclo ( Olimpici, Pitici, Istmici e Nemei), che del nuovo (Actia, Sebastà e Capitolia) era costituita da una corona di foglie di tipo variabile a seconda del luogo ove si disputavano le gare, di alloro nei giochi olimpici e pitici, di apio nei giochi istmici e nemei , di spighe nei sebastà.
Insieme alla corona che costituiva il premio più importante per ogni atleta, venivano donati rami di palma e anfore ricolme di olio, premi simbolici che sottolineavano il carattere sacrale dei giochi.

           

 

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